Bisogna sforzarsi di ragionare, al di là di ogni strumentalizzazione ed emotività, innanzitutto per loro e per tutte le altre migliaia di bambini, di donne e di uomini che non ce l’hanno fatta, per quelle che ancora proveranno a farcela, ma anche per quelle che sono arrivate fino a noi e vagano lontanissime dall’aver portato a termine qualunque progetto che, come ciascuno vorrebbe per sé e per coloro che ama, possa dare significato e dignità all’esistenza umana.
E poi bisogna farlo per noi stessi, sempre più in balia delle quotidiane esternazioni di chi usa il fenomeno delle migrazioni per costruire o rafforzare carriere politiche, per resuscitare partiti che senza la xenofobia e l’allarmismo non avrebbero altri discorsi su cui basare la propria legittimazione, per portare avanti accordi di ben altra natura da quella dichiaratamente “umanitaria”, che stanno riscrivendo le relazioni dell’area euro-mediterranea, ma non solo.
Il momento in cui quasi ogni cosa è cambiata è stato certamente quel 3 ottobre del 2013 dal cui primo anniversario ci separano ormai pochi mesi che rischiano di caricarsi di tantissime altre morti.
Un naufragio, quello del 3 ottobre, che si è sommato ai tantissimi altri in cui hanno perso la vita più di 20.000 persone negli ultimi vent’anni nel Mediterraneo, ma che ha consegnato troppo vicino a noi, proprio di fronte alle coste della piccola Lampedusa, 366 corpi soprattutto di donne e di bambini. Immagini di sterminate file di sacchi neri per cadaveri adagiati sulle banchine del porto e poi di file altrettanto sterminate di bare, marroni e bianche. Immagini che il mondo è rimasto a guardare, in silenzio, per alcuni giorni. Un silenzio che si sarebbe sperato fosse gravido, finalmente, dei germi di una nuova riflessione politica, nel senso più alto del termine, e onesta rispetto al movimento nel mondo di milioni di persone in fuga da guerre e violenze o semplicemente in cerca di un luogo in cui costruire una vita possibile.
Rotto il silenzio, “Mare Nostrum” ha iniziato ad operare e Lampedusa e il suo ‘spettacolo della frontiera’ costruito e strumentalizzato per decenni come laboratorio dell’accoglienza emergenziale, ma anche e soprattutto delle politiche più repressive di detenzione, clandestinizzazione e deportazione, sono d’improvviso scomparsi da tutte le rotte migratorie.
“Mare Nostrum” è l’iniziativa che più di tutte, nell’ultimo periodo, ha rinnovato il nesso pericolosissimo tra l’ambito “umanitario” e quello “militare” che, definitivamente sancito con le guerre occidentali dei primi anni Duemila proclamate in nome della tutela dei diritti umani, innerva ormai ogni aspetto della gestione delle migrazioni.
Il primo scopo dichiarato dell’operazione è il salvataggio della vita umana in mare. E su questo non è possibile dire che la missione abbia fallito in toto senza rischiare di dare manforte alle retoriche criminali di personaggi come Matteo Salvini che si oppongono alla situazione attuale permettendosi senza vergogna di auspicare un ritorno ai “tempi d’oro” dei respingimenti in mare condotti dalla marina militare italiana verso la Libia. Respingimenti illegali che hanno mandato verso morte, stupri e torture migliaia di persone e per i quali l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo nel 2012.
Troppo da dire ci sarebbe rispetto alle colpe di chi consapevolmente, da troppi anni, istiga all’odio sfruttando la paura, mentendo spudoratamente, travisando in cattiva coscienza gli eventi, rafforzando, in un processo irreversibile almeno a breve termine, quei pregiudizi che, come diceva Bobbio, sono socialmente i più pericolosi in quanto resistono ad ogni confutazione oggettiva, perché troppo rispondono e troppo si attagliano ai peggiori istinti umani.
Ed è questa l’unica prospettiva possibile da cui leggere le critiche mosse a “Mare Nostrum” dai partiti di destra italiani.
Detto questo, però, occorre affermare con la stessa forza con la quale si prendono le distanze da chi polemizza strumentalmente, che “Mare Nostrum” non rappresenta in nulla una soluzione, perché non ha alle spalle alcuna visione politica innovativa, perché si inserisce in un sistema costruito su priorità vecchie e non condivisibili perché del tutto diverse da quelle dei diritti e della pace. Non sono i nove milioni di euro al mese impiegati nell’operazione che devono suscitare scandalo. Anche perché questi fondi sono coperti in gran parte, al contrario di quel che demagogicamente si dichiara, dai fondi europei per l’asilo e l’immigrazione di cui l’Italia è il secondo paese U.E. a usufruire in termini quantitativi: quasi 500 milioni di euro per il periodo tra il 2007 e il 2013 (e sarebbe opportuno indagare su come questi fondi siano stati spesi prima dell’avvio dell’operazione “Mare Nostrum”) e una cifra molto simile prevista per il periodo 2014-2020. I costi di “Mare Nostrum” inoltre – cosa che non si sente dire spesso – appaiono coperti per 90 milioni dal Fondo rimpatri e per 70 milioni dalle entrate Inps relative alle regolarizzazioni dei migranti in Italia.
Senza deresponsabilizzare l’Europa, è anche a queste cifre che si deve guardare per spiegare l’indifferenza dimostrata dalle istituzioni U.E. al “batter cassa” italiano degli ultimi tempi, unitamente ad altri numeri, quelli relativi alle reali presenze dei rifugiati nei paesi europei, che vede l’Italia al quattordicesimo posto, mentre un paese come la Germania ospita un numero di profughi dieci volte maggiore senza per questo urlare al collasso di ogni accoglienza possibile.
In Italia, invece, il raddoppio del numero di migranti arrivati dal mare nei primi sei mesi del 2014 e la nuova modalità dei loro arrivi in grandi gruppi a bordo delle navi della marina militare, ha portato a un caos nella gestione dell’accoglienza senza precedenti. Da un lato, migliaia di cittadini e cittadine si sono mobilitate offrendo risorse e assistenza, a dimostrare che questo paese è ancora almeno in parte salvo dalle infiltrazioni dell’indifferenza o del razzismo. Dall’altro, la mancanza di un piano razionale di gestione ha portato al proliferare di centri di accoglienza straordinaria senza adeguate misure di controllo e soprattutto all’ammassarsi in condizioni precarissime di migliaia di persone presso stabili utilizzati nell’emergenza, come tendopoli o palazzetti dello sport, all’uscita dei quali profittatori di ogni tipo hanno dato vita a innumerevoli truffe ai danni dei profughi e a veri e propri “canali umanitari a pagamento” che portano oltre confine chi riesce a farsi mandare i soldi dalle famiglie (operazione che richiede una mediazione nel caso non si posseggano documenti) o ha portato qualche riserva economica con sé, pagando lucratori improvvisati o reti più o meno organizzate.
Questa realtà è stata denunciata concretamente dal “No Borders Train” partito da Milano alla volta della Svizzera, lo scorso 21 giugno, l’unica iniziativa che, insieme alla “Marcia per la libertà di migranti e rifugiati”, ha avuto il coraggio di praticare apertamente l’abbattimento dei confini europei per i richiedenti asilo politico.
Inutile dire che un sistema di accoglienza razionale e organizzato aiuterebbe anche le economie locali dei territori che accolgono, visto che – cosa che le retoriche leghiste mai dicono – i soldi stanziati pro capite per ogni migrante non vengono direttamente intascati dai profughi ma finiscono in servizi erogati da enti e associazioni italiane.
Ma a suscitare scandalo dovrebbero essere soprattutto gli stessi presupposti su cui si fonda “Mare Nostrum” ovvero il fatto di continuare a dare per scontato che decine di migliaia di persone in fuga da guerre e crisi politiche debbano continuare ad attraversare i deserti e poi raggiungere la Libia per cercare di salvarsi la vita e vengano qui detenute, stuprate, umiliate, spesso uccise. E se sopravvissute, messe poi nelle mani delle reti di traffico internazionale che usano i loro corpi come carne da macello che però vale a peso d’oro: una volta saliti sulle barche, che arrivino vivi o morti importa poco.
E che il presupposto implicito continui a rimanere quello dei “viaggi della speranza” che cinicamente fanno una selezione ab origine dei profughi che raggiungono l’Europa, lo dicono più di ogni altra cosa le ripetute dichiarazioni del governo italiano rispetto all’auspicio dell’apertura di campi in Libia a egida O.N.U. e U.E. per accogliere i richiedenti asilo; dichiarazioni che si propongono ipocritamente di apparire polemiche rispetto alle politiche dell’Unione Europea, mentre non fanno altro che rinfocolare un vecchio sogno dei paesi del vecchio continente, formalizzato per la prima volta dalle proposte britanniche al Consiglio europeo del 2003: quello dell’esternalizzazione dell’asilo nei paesi di transito.
Questo tipo di approccio spudorato è lo stesso che permette da decenni di continuare a fare accordi con le peggiori dittature del mondo, di invitare le autorità eritree ai funerali dei profughi fuggiti dalla loro stessa oppressione, di vendere armi che alimentano quei conflitti dai cui profughi poi ci si vorrebbe “difendere”.
La storia delle relazioni tra Italia e Libia è in questo senso emblematica e non è una storia che si interrompe con la fine dei pittoreschi incontri sotto la tenda del colonnello Gheddafi, cui hanno allegramente partecipato rappresentanti dei governi italiani di ogni colore: è una storia che è continuata e si è rafforzata con atti formali come quello dell’Accordo di cooperazione bilaterale tra Italia e Libia nel settore della Difesa, firmato a Roma il 28 maggio 2012, il cui principale obiettivo è l’addestramento delle forze armate libiche da parte di quelle italiane. Questo accordo ha garantito una nuova presenza italiana in Libia attraverso l’operazione “Cyrene” che nel solo trimestre ottobre - dicembre del 2013 è costata all’Italia oltre 5 milioni. Ma di questi soldi, al contrario di quelli direttamente impiegati da “Mare Nostrum”, nessuno parla.
Che questo sia l’approccio di “Mare Nostrum” lo dimostra il già esistente e strettissimo livello di cooperazione con la Libia che la stessa operazione presuppone. La presenza di autorità libiche a bordo delle navi, ad esempio, è stata definitivamente accertata; come apertamente dichiarata è la relazione esistente tra le attività di “Mare Nostrum” e quelle di “Eubam”, missione militare di controllo dei confini interni della Libia anche con lo scopo di allertare preventivamente le autorità (se così si può chiamarle) libiche rispetto al transito di migranti verso il loro paese. “Mare Nostrum” ed “Eubam” utilizzano gli stessi droni, gli aerei a pilotaggio remoto, partiti dalle stesse basi militari italiane, all’interno di un programma di militarizzazione del Mediterraneo, Sicilia in testa.
Come scrive Antonio Mazzeo: “Che siano gli aerei senza pilota la nuova frontiera tecnologica per le guerre ai migranti e alle migrazioni lanciate dalle forze armate italiane e libiche lo prova l’ultimo accordo tecnico di cooperazione bilaterale sottoscritto a Roma il 28 novembre 2013 dai ministri della difesa Mario Mauro e Abdullah Al-Thinni. Il memorandum autorizza l’impiego di mezzi aerei italiani a pilotaggio remoto in missioni a supporto delle autorità libiche per le attività di controllo del confine sud del Paese. Si tratta dei droni Predator del 32° Stormo dell’Aeronautica militare di Amendola (Fg), rischierati in Sicilia a Sigonella e Trapani-Birgi nell’ambito dell’operazione “Mare Nostrum” di controllo e vigilanza del Mediterraneo. Grazie ai Predator gli automezzi dei migranti saranno intercettati quando attraversano il Sahara e i militari libici potranno intervenire tempestivamente per detenerli o deportarli prima che essi possano raggiungere le città costiere”. In tal modo si usa lo spauracchio del governo delle migrazioni e tristemente anche l’obiettivo di salvare vite umane per dare nuova legittimità anche a mostruose operazioni di speculazione bellica che preludono a nuove guerre e a nuovi esodi. Un caso per tutti è quello del MUOS, il sistema di antenne satellitari statunitensi che ha per di più prodotto la devastazione ambientale e compromesso la salute degli abitanti del piccolo paese siciliano di Niscemi, dove è stato eretto, col beneplacito delle istituzioni politiche regionali e nazionali che hanno ignorato le resistenze democratiche espresse dal territorio.
Ma tornando alle proposte di esternalizzazione delle procedure di asilo in Libia, che pretendono che in quel paese sia possibile “smistare” i “veri” profughi dai “falsi” richiedenti asilo nel rispetto dei diritti umani di tutti, basti leggere il dossier prodotto da Amnesty International nel 2012 e intitolato “Sos Europe” che valutava l’impatto sui diritti umani dell’esternalizzazione del controllo delle migrazioni già in parte avvenuta, come abbiamo accennato, dall’Europa alla Libia, anche e soprattutto grazie al ruolo dell’Italia. Amnesty denuncia con fermezza la segretezza delle reali relazioni tra i due paesi e il fatto che l’opinione pubblica non sia mai stata messa al corrente delle misure realmente messe in opera. Inoltre, dal 2012 ad oggi la situazione libica non ha fatto che peggiorare in termini di stabilità politica e rispetto dei diritti umani, come dimostra la recente uccisione dell’avvocata e attivista Salwa Abugaigis. Dire di avere come obiettivo quello di salvare vite umane e poi proporre di esternalizzare qualunque forma di “selezione” dei profughi nella Libia contemporanea è semplicemente una contraddizione in termini che non può certo sfuggire al Presidente Renzi.
Sono altre le proposte che nel suo semestre di presidenza europea potrebbe portare a Bruxelles. Proposte come quelle sostanziate dai principi della “Carta di Lampedusa”, reazione dal basso e di segno del tutto opposto a quella istituzionale dopo il naufragio del 3 ottobre, o come quelle portate avanti dalla già citata marcia dei rifugiati su Bruxelles per contestare l’ultimo Consiglio europeo che, sulle migrazioni e sull’asilo, si è ancora una volta limitato a riproporre le ricette di rafforzamento militare dei confini attraverso l’aumento delle risorse per “Frontex”, senza intaccare in nulla una logica che risulta evidentemente ancora troppo conveniente. Proprio quest’ultimo vertice rivela definitivamente l’ipocrisia profonda degli inchini dinanzi alle bare e delle lacrime versate dopo la strage dell’isola dei Conigli, riaffermando la mancanza di volontà rispetto ad ogni cambiamento di rotta da parte dei governi europei, indisponibili a cedere sul terreno della gestione del confine.
Perché se le migrazioni sono un fenomeno epocale e non emergenziale – il quale origina da una gestione politica economica e militare a livello globale che produce movimenti inarrestabili con più di 50 milioni di rifugiati nel pianeta, la cui possibilità di vita è una responsabilità per tutti e per ciascuno e non un gravoso carico da rimpallare – questa sfida segna indelebilmente il nostro tempo, la nostra vita ed il nostro futuro.
La crisi siriana, il conflitto tra Israele e Palestina, il nuovo “califfato” in Iraq, la dittatura eritrea, la guerra in Mali, il conflitto civile in Somalia, gli attentati in Kenia, si inseriscono all’interno di un lunghissimo elenco che rischia solo di allungarsi. Chi fugge da queste situazioni pratica nei fatti i propri diritti e le proprie libertà e arriva coerentemente alle porte di un’Europa che su questi diritti e su queste libertà dice di fondare la propria identità.
È inevitabile oggi che l’approccio alle migrazioni diventi un emblematico terreno di conflitto e di lotte che abbiamo bisogno di portare avanti fino in fondo, riaffermando innanzitutto il diritto di restare anche nel proprio paese, quando è questo il desiderio delle persone, e quindi di non subire guerre e bombardamenti, delocalizzazioni che devastano le economie locali, cambiamenti climatici che portano l’esodo come unica forma di sopravvivenza; riaffermando la libertà di movimento non dei capitali economici e finanziari, ma degli esseri umani tutti, senza alcuna distinzione fondata sull’origine nazionale, anche e soprattutto perché questa sfida implica di ribaltare l’agenda di priorità nazionali e internazionali della politica contemporanea. Ciò significa cambiare il segno a questa Europa degli accordi solo economici, finanziari, industriali e militari che sempre includono clausole migratorie e usano i corpi dei migranti come pretesto o come moneta di scambio nel riassetto geopolitico delle influenze e dei poteri. Nessun commissario U.E. su immigrazione e mobilità servirà mai a nulla, così come nessuna revisione delle politiche di austerity potrà bastare se non si ricostruiscono del tutto le fondamenta della visione europea, tanto più oggi di fronte all’avanzare degli euroscetticismi costruiti sui nazionalismi, se non sui veri e propri nazismi, che trovano sempre più spazio in tutta Europa. Non vi è altro modo di uscire da questo corto circuito dell’Europa costruito sui suoi confini se non l’apertura di percorsi di arrivo garantito per i profughi a partire dal luogo più vicino possibile alle zone di conflitto, senza presupporre alcuna esternalizzazione dell’asilo e limitando al massimo la pericolosità e la lunghezza delle fughe. Questi percorsi presuppongono, certamente, un sistema di asilo europeo e la sospensione immediata del Regolamento di Dublino, oltre che un adeguamento di tutti gli Stati membri agli stessi standard di accoglienza e di rispetto dei diritti civili, politici e sociali.
Insieme ai percorsi di arrivo garantito e ad un sistema di asilo europeo che rispetti la libertà di scelta e di movimento delle persone e i loro diritti, è indispensabile esigere adesso l’apertura di canali di ingresso legale per tutti i migranti, che a milioni sono sfruttati all’interno di un’economia neoschiavistica in tutta Europa, favorendo anche in questo modo fenomeni di tratta degli esseri umani.
Queste proposte sono talmente razionali da non prevedere costi aggiuntivi, ma semplicemente la riconversione delle spese ad oggi destinate al controllo militare delle frontiere interne ed esterne, agli armamenti e agli addestramenti destinati a questo scopo, all’apparato detentivo dei Centri di identificazione ed espulsione europei, ovunque luoghi costosissimi, disumani, e comprovatamente inutili. Nonostante questo, o forse proprio per questo, nessuna istituzione le porterà mai avanti.
Più che mai è allora necessario invertire i fattori: è dal basso, dalle stanze degli sportelli di supporto legale, dalle strade dove si incontrano vecchie e nuove generazioni di migranti e non, dalle sale d’attesa degli ambulatori popolari, dalle aule delle scuole di italiano, dalle associazioni che producono solidarietà, autodifesa e mutuo soccorso, dalle pratiche collettive dei movimenti, lì dove nasce e cresce un’Europa diversa, che possiamo pensare di ribaltare l’Europa che oggi conosciamo e le sue politiche di confinamento e di guerra.
Dodici milioni per campi di torture
Vi sarà forse scappato un particolare. L’Italia e l’Ue hanno stanziato almeno 12 milioni di euro per i prossimi quattro anni, per la gestione e la riabilitazione di centri di detenzione in Libia. Campi dove si torturano migranti in transito, con abusi e violenze delle guardie carcerarie libiche accertate da anni, e nuovamente lo scorso 22 giugno da Human Rights Watch (HRW) con la pubblicazione dei risultati preliminari di un’indagine svolta nel paese. La più grande organizzazione mondiale di monitoraggio di diritti umani, esorta l’Ue e l’Italia a sospendere ogni assistenza ai centri libici fino a che non sia chiaro che le violenze sono terminate . Infatti, nonostante la censura italiana e la falsa coscienza ipocrita (e l’assurda proposta del governo di aprire centri di “accoglienza e smistamento” in uno stato non firmatario della Convenzione di Ginevra), le torture nei lager libici proseguono.
Quelle torture hanno un nome: stupri per le donne, scariche elettriche, ustioni, flagellazioni e percosse con spranghe, cavi e tubi, confinamento per più di 24 ore al giorno rinchiusi per mesi in container in pieno sole desertico . Per non menzionare l’estremo sovraffollamento delle celle (fino a 60 persone in 30 metri quadrati), l’assenza di bagni, l’assenza di cure sanitarie (anche per donne incinte e bambini), gli insulti verbali razziali e le quotidiane minacce di morte.
Trattamenti inumani e degradanti, già ampiamente documentati da Amnesty International nel giugno 2013, in tre centri di cui quello di Sabha. Le vittime: i migranti subsahariani, che fuggono conflitti da est a ovest dell’Africa e che nel viaggio verso l’Europa, transitano alcuni mesi o anni, nell’inferno libico.
Ad aprile scorso i ricercatori di HRW hanno visitato 9 dei 19 centri di detenzione gestiti dal Dipartimento alla lotta all’immigrazione clandestina (DCIM) del ministero dell’interno libico, e potuto incontrare e svolgere colloqui con 138 detenuti sulle loro condizioni di detenzione. In otto centri, Burshada, al-Hamra, al-Khums, abu-Saleem, Tomena, Tuweisha, Soroman e Zliten, – 93 detenuti, anche ragazzi di meno di 14 anni hanno riferito di abusi e gravi violenze da parte delle guardie carcerarie. Di torture.
“Ho visto appendere quattro o cinque persone a testa in giù ad un albero fuori dalla porta principale e li ho visti percuoterli e frustarli sui piedi e sulla pancia”, ha raccontato un giovane somalo detenuto a Tomena.
Conseguenze della cosiddetta eufemistica “esternalizzazione delle frontiere con paesi terzi”, per bloccare l’immigrazione a tutti costi, con il lavoro sporco. Da maggio 2013 l’Ue ha creato la missione europea di assistenza alle frontiere (Eubam) in Libia per “sostenere le autorità libiche nel migliorare e sviluppare la sicurezza dei confini del Paese”. Leggere: addestramento della guardia costiera libica nelle tecniche di controllo dei confini ( leggere respingimento), riparazione delle vedette con i soldi italiani (dixit ambasciata italiana in Libia). Peccato che quelli respinti finiscono, di nuovo, nei campi detenzione.
Quelle torture delegate ci riguardano. E un giorno i desaparecidos delle celle libiche, finanziati con i nostri “aiuti” ce ne chiederanno conto.
Flore Murard-Yovanovitch. 26 giugno 2014, L'Unita'
L'infinita tragedia nei mari del mondo con 16.000 morti solo nel Mediterraneo
LAMPEDUSA - E si continua a morire in mare, per raggiungere le coste della speranza. Tuttavia, non esistono dati ufficiali sui migranti che hanno perso la vita cercando di raggiungere l'Italia. Secondo l'associazione Fortress 1 dal 1988 almeno 15.760 persone sono morte tentando di raggiungere le rive europee. In 3.616 sono decedute tra il 2006 e il 2008. Il bollettino si aggiorna continuamente e il quadro si aggrava dal mese di gennaio quando, con la caduta del presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali e l'insurrezione in Libia, sono aumentati gli sbarchi.
Una strage senza fine. La denuncia l'associazione Fortress. "Il mare di mezzo è divenuto una grande fossa comune, nell'indifferenza delle due sponde del mare di mezzo" si legge sul sito di Fortress. "Dei giovani deceduti annegando nel tentativo di 'espugnare la fortezza' Europa, abbiamo le prove. Sono migliaia di articoli recensiti negli archivi della stampa internazionale". Secondo i dati Fortress, nel Mediterraneo e nell'Oceano Atlantico verso le Canarie sono annegate 11.150 persone. Metà delle salme (6.649) non sono mai state recuperate. Nel Canale di Sicilia, tra la Libia, l'Egitto, la Tunisia, Malta e l'Italia le vittime sono 4.249, tra cui 3.110 dispersi. Altre 186 persone sono morte navigando dall'Algeria verso la Sardegna.
Le rotte della morte. Lungo i tragitti in mare, che vanno dal Marocco, dall'Algeria, dal Sahara occidentale, dalla Mauritania e dal Senegal alla Spagna, puntando verso le isole Canarie o attraversando lo stretto di Gibilterra, sono morte almeno 4.551 persone. Nell'Egeo invece, tra la Turchia e la Grecia, ma anche dall'Egitto alla Grecia, hanno perso la vita 1.389 migranti. Nel Mare Adriatico, tra l'Albania, il Montenegro, la Grecia e l'Italia, hanno perso la vita almeno 637 persone. Inoltre, almeno 629 migranti sono annegati sulle rotte per l'isola francese di Mayotte, nell'oceano Indiano. Una lista alla quale va aggiunta un'altra sciagura: quella del barcone che s'infranse sugli scogli della costa australiana il 15 dicembre scorso e che costò la vita a 50 profughi iracheni e iraniani.
Soffocare in una stiva. Il mare non si attraversa soltanto su imbarcazioni di fortuna, ma, da clandestini, anche su traghetti e mercantili, dove spesso viaggiano migranti nascosti nelle stive o nei container. Anche qui le condizioni di sicurezza restano bassissime: 153 le morti accertate per soffocamento o annegamento. "Per chi viaggia da sud, il Sahara è un pericoloso passaggio obbligato per arrivare al mare. Il grande deserto separa l'Africa occidentale e il Corno d'Africa dal Mediterraneo. Si attraversa sui camion e sui fuoristrada che battono le piste tra Sudan, Chad, Niger e Mali da un lato e Libia e Algeria dall'altro - segnala ancora Fortress - . Qui, dal 1996 sono morte almeno 1.703 persone. Ma secondo le testimonianze dei sopravvissuti, quasi ogni viaggio conta i suoi morti. Pertanto le vittime censite sulla stampa potrebbero essere solo una sottostima.
MORIRE DI FRONTIERA.
Per chi viaggia da sud il Sahara è un pericoloso passaggio obbligato per arrivare al mare. Il grande deserto separa l'Africa occidentale e il Corno d'Africa dal Mediterraneo. Si attraversa sui camion e sui fuoristrada che battono le piste tra Sudan, Chad, Niger e Mali da un lato e Libia e Algeria dall'altro. Qui dal 1996 sono morte almeno 1.691 persone. Ma stando alle testimonianze dei sopravvissuti, quasi ogni viaggio conta i suoi morti. Pertanto le vittime censite sulla stampa potrebbero essere solo una sottostima. Tra i morti si contano anche le vittime delle deportazioni collettive praticate dai governi di Tripoli, Algeri e Rabat, abituati da anni ad abbandonare a se stessi gruppi di centinaia di persone in zone frontaliere in pieno deserto
In Libia si registrano gravi episodi di violenze contro i migranti. Non esistono dati sulla cronaca nera. Nel 2006 Human rights watch e Afvic hanno accusato Tripoli di arresti arbitrari e torture nei centri di detenzione per stranieri, tre dei quali sarebbero stati finanziati dall'Italia. Nel settembre 2000 a Zawiyah, nel nord-ovest del Paese, vennero uccisi almeno 560 migranti nel corso di sommosse razziste.
Viaggiando nascosti nei tir hanno perso la vita in seguito ad incidenti stradali, per soffocamento o schiacciati dal peso delle merci 358 persone. E almeno 208 migranti sono annegati attraversando i fiumi frontalieri: la maggior parte nell'Oder-Neisse tra Polonia e Germania, nell'Evros tra Turchia e Grecia, nel Sava tra Bosnia e Croazia e nel Morava, tra Slovacchia e Repubblica Ceka. Altre 112 persone sono invece morte di freddo percorrendo a piedi i valichi della frontiera, soprattutto in Turchia e Grecia. In Grecia, al confine nordorientale con la Turchia, nella provincia di Evros, esistono ancora i campi minati. Qui, tentando di attraversare a piedi il confine, sono rimaste uccise 92 persone. Sotto gli spari della polizia di frontiera, sono morti ammazzati 231 migranti, di cui 37 soltanto a Ceuta e Melilla, le due enclaves spagnole in Marocco, 50 in Gambia, 71 in Egitto - di cui 43 alla frontiera con Israele - e altri 32 lungo il confine turco con l'Iran e l'Iraq. Ma ad uccidere sono anche le procedure di espulsione in Francia, Belgio, Germania, Spagna, Svizzera e l'esternalizzazione dei controlli delle frontiere in Marocco e Libia. Infine 41 persone sono morte assiderate, viaggiando nascoste nel vano carrello di aerei diretti negli scali europei. E altre 29 hanno perso la vita tentando di raggiungere l'Inghilterra da Calais, nascosti nei camion o sotto i treni che attraversano il tunnel della Manica, oltre a 12 morti investiti dai treni in altre frontiere e 3 annegati nel Canale della Manica.


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