lunedì 16 novembre 2015
Tra Bergamo e Brescia, l’altra “Terra dei fuochi”
A volte, certe coincidenze sono interessanti. E parecchio.
Smontata Expo, spenti i riflettori milanesi e tutti con gli occhi puntati sulla
suburra romana, ecco invece la condanna per uno degli ex re delle grandi opere
lombarde. Arriva a Bergamo, si snoda attraverso Brescia e vede al centro
Pierluca Locatelli, ex «imperatore» delle costruzioni, ex titolare di un
colosso (la «Locatelli» di Grumello del Monte, nel Bergamasco) da centinaia di
operai, milioni di fatturato e infinità di cantieri, ormai ex tutto.
La data fatidica, quella della fine della sua corsa, è il 30
novembre 2011: dieci arresti azzoppano la BreBeMi, in manette finisce lo stesso
Locatelli e ci finisce soprattutto Franco Nicoli Cristiani, allora
vicepresidente Pdl del Consiglio regionale e già assessore all’Ambiente di
Regione Lombardia. Per la «capitale morale» del paese, una bella botta. L’accusa
dei magistrati, e in particolare della Direzione distrettuale antimafia
bresciana, è pesante: una mazzetta da 100mila euro recapitata da Locatelli a
Nicoli Cristiani per sveltire l’iter per una discarica di amianto a Cappella
Cantone (Cremona) e il presunto smaltimento illecito di rifiuti tossici sotto
l’autostrada in costruzione, in particolare nei cantieri di Fara Olivana con
Sola (Bergamo) e Cassano d’Adda (Milano). Ma occorre fermarsi un attimo,
incastrare i tasselli del mosaico, tracciare il disegno di un quadro nero.
La condanna a Locatelli, si diceva: quella giunta martedì 3
novembre 2015, infatti, riguarda un’altra storia. Ma è da questa vicenda che è
partito il lavoro d’indagine che ha portato a far luce sull’«autostrada
fantasma» lombarda. Tra le grandi opere affidate all’imprenditore c’era infatti
la variante di Orzivecchi, provincia di Brescia. Snodo cruciale della trama:
l’impianto di Biancinella (a Calcinate, Bergamo), di proprietà di Locatelli, in
cui delle scorie di fonderia avrebbero dovuto essere «purificate» prima di
giungere al cantiere bresciano per essere impiegate nella realizzazione del
manto stradale. Per i magistrati, non è andata proprio così: quelle scorie non
sarebbero state trattate adeguatamente. Impianto accusatorio sostanzialmente
confermato in Tribunale: sei anni la condanna inflitta dal giudice Vito Di Vita
all’imprenditore per il traffico illecito di rifiuti, e condanne pure alla
moglie e ad altri collaboratori di Locatelli. Un round importante, su cui
peserà ora l’iter verso l’appello, ma fondamentale. Perché riconosce un dato di
fatto: tra Bergamo e Brescia c’è una bomba ambientale.
«Lo scopo della BreBeMi? Interrare rifiuti»
Nero su bianco. Parlano le inchieste, i documenti, i
verbali. L’ultima relazione annuale della Direzione nazionale antimafia
racconta del distretto giudiziario bresciano come di un territorio dove la
criminalità ambientale è aggressiva e manifesta, con condotte «non meno e anzi
forse più pericolose di quelle cui tanta attenzione si è dedicata, consumatesi
in territorio campano, se non altro perché neppure il bagliore dei fuochi
levantisi verso il cielo ha potuto segnalare la presenza di qualcosa di
terribile nelle viscere ella terra». Meno prosaicamente: un’altra «Terra dei
fuochi».
Rieccoci alla BreBeMi, allora. Automobili che la
frequentano? Poche. Ombre? Tante. Il 4 novembre 2014, una manciata di mesi dopo
l’inaugurazione, di fronte alla Commissione d’inchiesta parlamentare sul ciclo
dei rifiuti si svolge l’audizione di Roberto Pennisi, sostituto procuratore
nazionale antimafia. Le sue parole sono pietre: «L’unico scopo al quale fino a
questo momento è servita la BreBeMi è stato per interrare rifiuti. Spesso vado
da Brescia a Napoli in ferrovia. La ferrovia corre parallelamente alla BreBeMi
e io la vedo sempre vuota». Per quell’inchiesta, un primo punto è stato
segnato: sulla vicenda della discarica d’amianto, a ottobre 2014 è arrivato un
patteggiamento per Nicoli Cristiani (due anni) e la condanna in rito abbreviato
a Locatelli (due anni). La battaglia legale (rallentata da alcuni cavilli
procedurali), ora, è tutta sullo smaltimento illecito di rifiuti.
L’imprenditoria, la politica e anche la pubblica
amministrazione: sempre dinnanzi alla Commissione sul ciclo dei rifiuti, la pm
bresciana Silvia Bonardi ha riferito dell’esistenza di rapporti «anomali» tra
Locatelli e alti dirigenti dell’Arpa (l’Agenzia regionale per la protezione
dell’ambiente) di Bergamo. E, guarda caso, quel 30 novembre del 2011 in manette
finì pure Giuseppe Rotondaro, dirigente dell’Arpa lombarda (ha patteggiato un
anno e otto mesi).
Manca solo la criminalità organizzata. E questo, forse, è un
fattore particolare del contesto «ecocriminale» bergamasco-bresciano: la
‘ndrangheta si vede poco, la sua presenza è solo sfumata, sono soprattutto gli
imprenditori a sporcarsi le mani. Qualche rapporto tra la «Locatelli» e le
‘ndrine, comunque, è emerso. Tocca riavvolgere il nastro almeno al 2006, quando
l’azienda bergamasca è impegnata nei lavori per l’alta velocità Milano-Venezia
a Melzo. Ottenuto il subappalto dalla «De Lieto» (la principale impresa
aggiudicataria), per alcuni lavori di movimento terra la «Locatelli» si avvale
della «P&P», la ditta facente capo a Marcello Paparo, calabrese di Isola di
Capo Rizzuto trapiantato a Milano, successivamente arrestato nel 2009 su
richiesta della Dda meneghina. Durante quei lavori, la società di Paparo ha un
problema non di poco conto: come aggirare le normative antimafia? Serve un
consiglio, un suggerimento. A Romualdo Paparo, fratello di Marcello, glielo
offre un geometra della «Locatelli» (i dipendenti dell’azienda bergamasca non
avranno conseguenze penali per intervenuta prescrizione): sui camion della
«P&P», «schiaffaci due targhette “Locatelli”, no?». Come non averci pensato
prima?
Dolci colline di rifiuti
Ci sono poi strane colline che spuntano dal nulla. Si prenda
Montichiari, cittadina di 25mila abitanti a una ventina di chilometri di
Brescia. Zona storicamente pianeggiante, negli ultimi anni ecco sorgere degli
strani rilievi. Tettonica delle placche? Materia per geologi? No, la causa è
un’altra: i rifiuti. Non lo dice un visionario: lo sostiene il procuratore
generale di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, di fronte alla Commissione
d’inchiesta parlamentare sul ciclo dei rifiuti, giunta da quelle parti per
un’apposita missione tra il 15 e il 16 giugno 2015. «Montichiari è una zona
pianeggiante, o perlomeno lo è stata dall’assestamento tettonico risalente a
quando la nostra specie non era sulla terra – spiega il magistrato con una
punta d’ironia –, fino ad alcuni anni fa. Attualmente, la pianura di
Montichiari è un sito collinare. A parte i casi di vulcanismo, qui totalmente
assenti, le colline non spuntano come funghi, e infatti si tratta di colline
del tutto anomale, cioè di cumuli molto estesi di rifiuti, alcuni messi più o
meno in situazione di attenzione, con qualche cautela». » . Contromisure?
Nulla: «Non mi risulta che siano in atto studi o altro per una bonifica di
Montichiari», sentenzia amaramente Dell’Osso. «Come è possibile?», è la domanda
che sorge spontanea. Serve ripensare alle cave disseminate nella brughiera di
Montichiari negli ultimi decenni: e dalle cave alle discariche (negli anni se
ne sono succedute diciassette) e ai possibili illeciti connessi, il passo è
breve.
Australian connection
La Valle Camonica e l’Australia. Le montagne e il deserto, i
camosci e i canguri, il freddo e il caldo. Qualcosa in comune? Nemmeno
l’emisfero, verrebbe da dire. Eppure, nel 2009, a Tomago, centro di nemmeno
trecento anime disperso nel Nuovo Galles del Sud, qualcuno ha un’idea. E che
idea.
Perché lì, a Tomago, a due ore di macchina da Sidney, c’è
praticamente solo un grande business: l’alluminio, e in particolare la fonderia
della «Tomago Aluminium Company», giro d’affari miliardario. Gli scarti della
lavorazione sono un’infinità, liberarsene non è facile. Tra settembre 2009 e
febbraio 2010 inizia la traversata intercontinentale di quegli scarti,
soprattutto celle elettrolitiche della fusione dell’alluminio. Ventitrémila
tonnellate, cifra esorbitante: via mare da Sidney a Porto Marghera, via tir
(800 tir) da Venezia a Berzo Demo. Ma cosa c’è in quegli anni a Berzo Demo,
paesino incastonato in quella valle che separa la provincia di Bergamo da
quella di Brescia? La «Selca», società sorta negli anni Novanta, guidata dai
fratelli Flavio e Ivano Bettoni, che nel 1998 ottiene una prima autorizzazione
da Regione Lombardia per trattare rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi,
autorizzazione che nel 2002 permette alla società di trattare fino a 150mila
tonnellate annue. Coincidenze: chi è l’assessore regionale all’Ambiente dal
1995 al 2005? Franco Nicoli Cristiani, finito in manette per l’affaire BreBeMi.
Oltre che dalla «Terra dei canguri», rifiuti da trattare arrivano anche da
tutta Italia, dall’Europa, persino dall’Asia.
«Trattare i rifiuti», tuttavia, è un eufemismo. Benché si
presentasse come «altamente specializzata», la reale prassi adottata
dall’azienda la illustra Pier Luigi Maria Dell’Osso alla Commissione sul ciclo
di rifiuti: «Questi rifiuti tossici non erano trattati adeguatamente, la Selca
non ha mai avuto la disponibilità di attrezzature. Inoltre, risulta che
rivendesse stabilmente i medesimi rifiuti tossici come materie prime secondarie
in dettaglio quali combustibili ad acciaierie e cementifici». Scorie non
trattate, rifiuti abbandonati a se stessi, probabili sversamenti, emissioni
fuori controllo. E falde acquifere inquinate, come rilevato dall’Arpa:
particolare non da poco, a due passi dall’azienda scorre il fiume Oglio, che
fra Costa Volpino (Bergamo) e Pisogne (Brescia) va a formare il lago d’Iseo.
Capita pure che sulla «Selca» si posino gli occhi della
criminalità. Premessa fondamentale: dalla seconda metà degli anni Duemila (nel
2004, nel frattempo, la magistratura bresciana effettua il primo sequestro di
rifiuti), la società entra in crisi e nel 2010 arriva il fallimento. Per
salvarla, a un certo punto, si interessa Guido Catapano, alla testa
dell’omonimo gruppo imprenditoriale napoletano, secondo alcune fonti in odore
di camorra, poi arrestato il 29 marzo 2011 insieme ad altre tredici persone per
associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta. E la storia
dell’Australia? Altre ombre, e per far luce si sta muovendo Dell’Osso: «Ho già
avviato indagini sull’impresa australiana, perché in Australia la ‘ndrangheta
c’è, contrariamente a quello che gli australiani pensano». C’è anche nel Nuovo
Galles del Sud, infatti. E da decenni: nel 1977, a Griffith, ad esempio, viene
ucciso Donald Mackay, deputato del Nuovo Galles del Sud, primo omicidio
eccellente della mafia calabrese in terra d’Australia.
È una storia che si annuncia ancora lunga e tortuosa, quella
della «Selca». Sotto più fronti. In primis, quello ambientale, una ferita
aperta e destinata a produrre effetti pesanti. Dal punto di vista giudiziario
non si è certo messi meglio. I fratelli Bettoni sono stati rinviati a giudizio
per falso e traffico internazionale di rifiuti, ma la giustizia procede
lentamente: la prima udienza, prevista per il 5 giugno di quest’anno, è stata
rimandata al 27 ottobre e successivamente rinviata al 7 dicembre per
un’incompatibilità del giudice. Sullo sfondo, lo spettro ricorrente: la
prescrizione (scatterebbe a metà 2017) e l’ennesima storia d’impunità
all’italiana. La ciliegina sulla torta: Giacomo Ducoli, curatore fallimentare
dell’azienda, è indagato per disastro ambientale. Stando all’accusa, non
avrebbe utilizzato con la dovuta «priorità» i fondi (circa 9 milioni di euro) a
disposizione per la bonifica. Quei rifiuti, insomma, sembrano abbandonati a
loro stessi. Un po’ come questa nuova «Terra dei fuochi».
articolo di Luca Bonzanni, pubblicato il 9 novembre 2015 sul sito www.stampoantimafioso.it
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