sabato 6 agosto 2016
Debito, vogliamo parlarne?
Nel 2015, secondo l’Istat, le famiglie che in Italia
vivevano in povertà assoluta sono diventate 1 milione e 582 mila, pari a 4
milioni e 598 mila persone, il numero più alto dal 2005.
Sempre nel 2015, una ricerca Censis-Rbm calcola in oltre 11
milioni (coinvolto il 43% delle famiglie italiane) le persone che hanno dovuto
rinviare o rinunciare a cure mediche adeguate, a causa delle difficoltà
economiche.
Nel medesimo anno, come in tutti gli anni precedenti, lo
Stato ha pagato 85 miliardi di euro solo per gli interessi sul debito pubblico.
C’è connessione fra queste cifre? Chi dice di no non ha mai
fatto parte né della categoria della povertà assoluta, né di quella che fatica
a curarsi adeguatamente. È per questo che considera il debito pubblico italiano
come essenzialmente dovuto alla dissennatezza collettiva dell’aver vissuto per
anni “al di sopra delle proprie possibilità” e trova ora normale doverne pagare
lo scotto (interessi compresi), sapendo che ricadrà su ben precise fasce di
popolazione.
Ma è andata davvero così? Naturalmente no e pochi dati
bastano a dimostrarlo.
Negli ultimi 20 anni, il bilancio dello Stato si è chiuso in
avanzo primario (rapporto fra entrate e uscite) per ben 18 volte e la parte dei
cittadini che ha sempre pagato le tasse ha versato allo Stato almeno 700
miliardi di euro in più di quello che ha ricevuto sotto forma di beni e
servizi.
Come mai allora il nostro debito continua a veleggiare oltre
i 2.200 miliardi di euro? Perché dal divorzio fra Ministero del Tesoro e Banca
d’Italia nel 1981, e la conseguente fine della copertura “in ultima istanza” da
parte di quest’ultima dei prestiti emessi dallo Stato, gli interessi da pagare
sul debito sono saliti alle stelle, tanto che ad oggi abbiamo già
collettivamente pagato oltre 3.000 miliardi di interessi su un debito che
continua a salire e che auto-alimenta la catena, ingabbiando la vita e i
diritti di tutti.
La spesa per interessi è pari a oltre il 5% del Pil e
rappresenta la terza voce di spesa dopo la previdenza e la sanità. Se a tutto
questo aggiungiamo il fiscal compact ovvero l’impegno preso in sede europea a
riportare il rapporto debito/Pil dall’attuale 130% al 60% nei prossimi venti
anni, con un taglio conseguente della spesa pubblica di circa 50 miliardi/anno,
il quadro della trappola diviene evidente: il debito serve a trasferire risorse
dal lavoro al capitale e a consegnare ai grandi interessi finanziari,
attraverso alienazione del patrimonio pubblico e privatizzazioni, tutto ciò che
ci appartiene.
E la sottrazione di democrazia messa in campo con la riforma
costituzionale, sulla quale si voterà in autunno, rappresenta solo il tentativo
di approfittare della crisi per approfondire le politiche liberiste,
sostituendo la discussione democratica con l’obbligo alle stesse e il
necessario consenso con la collettiva rassegnazione.
La trappola del debito diviene ancor più evidente se poniamo
l’attenzione sugli enti locali e le comunità territoriali, ormai giunti al
collasso finanziario, grazie al combinato disposto di patto di stabilità (e
pareggio di bilancio), tagli ai trasferimenti e spending review: quanti sanno
infatti che, nonostante il contributo degli enti locali al debito pubblico
italiano sia pari solo al 2,4%, sugli stessi si sia scaricata la maggior parte
delle misure, al punto che dal 2008 i tagli delle risorse a loro disposizione
siano passati da 1.650 a 15.500 miliardi (+900%) ?
Di fronte a questi dati, possiamo continuare a dire che il
debito è ineluttabile e a considerare gli interessi sullo stesso normale parte
del contratto stipulato?
Possiamo continuare a pensare che il debito, in quanto
colpa, va saldato e trovare normale che a quella cultura si educhino intere
generazioni già nella scuola, con la trasformazione dei giudizi
sull’apprendimento in “debiti” e “crediti”?
Crediamo di no e, a sostegno di questa tesi, basta leggersi
l’art. 103 della Carta dell’Onu, quando pone l’obbligo di ogni Stato a
garantire pace, coesione e sviluppo sociale sopra ogni altro e qualsivoglia
impegno contratto dallo stesso.
Del resto, qualcuno può ritenere sostenibile mantenere un
debito, che oltre allo stesso, comporti la sottrazione annuale di 135 miliardi
di euro di risorse collettive, per pagarne gli interessi e per adempiere al
fiscal compact?
Da che mondo è mondo, non si è mai visto un creditore
anelare al pagamento del debito. L’usuraio teme due soli eventi nella sua
“professione”: la morte del debitore e il saldo del debito, perché, in entrambi
i casi, perderebbe la fonte periodica del suo sostentamento – gli interessi – e
la possibilità di dominio sull’altro e sulle sue scelte in merito ai suoi averi
e proprietà (nel caso degli Stati, i beni comuni).
Ecco perché il debito deve smettere di essere un tabù e deve
divenire parte concreta delle battaglie per un altro modello sociale. Se il
debito è oggi agitato come “lo shock per
far diventare politicamente inevitabile, ciò che è socialmente inaccettabile”
(Milton Friedman), occorre che le popolazioni passino dal panico prodotto dallo
shock – che comporta paralisi, ripiegamento individuale e adesione alla
narrazione dominante – alla sana pre-occupazione ovvero alla capacità
collettiva di iniziare ad occuparsi di sé, della collettività e del comune
destino.
Rifiutando la trappola del debito e rivendicando a tutti i
livelli – locale, nazionale e internazionale – la necessità di un’indagine
indipendente e partecipativa che sveli quanta parte del debito è illegittima e
quanta parte è odiosa – dunque da non pagare – e che affronti, partendo
dall’incomprimibilità dei diritti individuali e sociali, tempi e modi del
pagamento dell’eventuale restante parte legittima.
Di tutto questo si discuterà all’Università estiva di
Attac Italia, a Roma dal 16 al 18 settembre, in una serie di seminari che,
partendo dal debito internazionale (con la presenza di Eric Toussaint del
Cadtm), arriverà a mettere a confronto le nuove esperienze di movimento e
istituzionali nelle “città ribelli” di Barcellona, Napoli e Roma (http://www.italia.attac.org/index.php
).
Un’occasione per liberare il presente e riappropriarci del
futuro.
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