mercoledì 7 settembre 2016
Fascisterie. Figli di una lupa minore
Tredici bambini che fanno il saluto romano: questa la
cartolina di chiusura di “Ritorno a Camelot”, manifestazione organizzata dal
Veneto Fronte Skinheads tenutasi in un camping privato del piccolo comune di
Revine Lago tra l’1 e il 4 settembre scorsi. A diffondere ieri la foto coi
volti occultati dei minori di età presumibilmente compresa tra i sette ed i
tredici anni il quotidiano locale “La Tribuna”.
Una immagine che spiega meglio di ogni altra come possano
essere inculcati certi valori a chi dovrebbe crescere nell’innocenza e comunque
con tutt’altri insegnamenti. Ma dall’altro lato una foto che apre uno squarcio
sulla sonnolenza del dibattito nei media locali trevigiani, non nuovi a
trattare l’argomento skinhead visto che la sede di Revine Lago era stata scelta
anche in altre occasioni. Anche questa volta nei giorni e nelle settimane
precedenti al raduno dei naziskin, lo striminzito dibattito nei media locali
verteva essenzialmente sulla possibilità che vi fossero problemi di ordine
pubblico o scontri tra opposte fazioni, e pertanto anche durante questa
edizione di “Ritorno a Camelot” era schierato nelle strade di Revine un
massiccio numero di forze dell’ordine. Pure stavolta, come negli anni
precedenti, non vi è stato alcun problema di ordine pubblico; del resto le luci
dei riflettori puntati e le forze dell’ordine schierate – oltre alla totale
assenza di qual che sia provocazione – non davano adito in alcun modo ad alcun
incidente.
Tutto filato come previsto dunque, con l’afflusso di
centinaia di teste rasate da mezza Europa, coi soliti concerti degli ormai noti
gruppi musicali di area, e coi dibattiti aventi come protagonisti personaggi a
dir poco discutibili, dei quali scrisse negli scorsi giorni sul Manifesto l’esperto
di movimenti neofascisti Saverio Ferrari. Così, tra croci celtiche e simboli
runici, tra una conferenza storica condotta da ammiratori di Priebke e del
regime nazista e un’altra con ospite un depistatore delle indagini sulla strage
di piazza Fontana, tra fobie sul “fantomatico” gender e invasione di stranieri,
l’evento si è svolto nell’intimità della ormai collaudata cornice lacustre di
Revine Lago.
La popolazione di questo comune di poco più di 2000 abitanti
parevano non avvertire alcun tipo di problema per la presenza di diverse
centinaia di skinhead, anzi più di qualcuno si è gonfiato tasche e portafogli
con gli introiti che hanno portato nelle birrerie, negli agriturismi e nei bed
and breakfast. Anche stavolta quindi l’epilogo pareva scritto e come le altre
volte, partigiani e organizzazioni di sinistra stavano per passare per gli
intolleranti che vogliono negare la libertà di espressione altrui. Perché poco
importa se esiste chi considera che le camere a gas servissero per
“disinfettare”, poco importa se Hitler fosse stato “un grande statista”, poco
importa se qualcuno senta il bisogno di “difendere la razza bianca”, poco
importano quei collegamenti neppure troppo velati con quella destra eversiva
che qualche decennio fa piazzava bombe o con i teppisti che menano le mani col
favor delle tenebre; l’importante è che non lascino sporcizia e che non
disturbino il vicinato. Anzi, cinque anni fa per farsi ben volere gli skinhead
raccolsero pure alcune centinaia di euro che destinarono all’asilo parrocchiale
e li consegnarono al parroco che imbarazzato decise di donarli ad alcune
famiglie di immigrati in particolare difficoltà economica.
Stavolta però è arrivata quella foto a svegliare i
trevigiani e i revinesi, un piccolo tarlo nelle loro coscienze: non è una festa
come un’altra, non è solo questione di ordine pubblico, e peraltro non è solo
questione di legalità (l’Anpi richiamandosi alla legge Mancino ha annunciato
che si impegnerà in una azione legale contro i genitori dei minori). Quella
foto in cui l’innocenza infantile viene brutalmente violentata da quel braccio
teso, in uno stucchevole collegamento tra lo smemorato terzo millennio e quei
regimi che insanguinarono l’Europa negli anni ’30 e ’40
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