domenica 9 ottobre 2016

Verso il referendum costituzionale del 4 dicembre: alcune riflessioni sparse

Diciamocelo: in fondo, ciò su cui saremo chiamati ad esprimerci nel referendum costituzionale del 4 dicembre non è poi questa gran novità, per lo meno sotto l’aspetto della reale forma di governo della nostra Repubblica. Infatti, già oggi – ma è così ormai da alcuni decenni almeno – è difficilmente sostenibile che in l’Italia viga davvero un regime parlamentare effettivo. Neppure ci scandalizza più il deprimente ed assai ricorrente spettacolo offerto dai vari governi di turno che bellamente si fanno beffe della volontà non soltanto di deputati e senatori, ma pure degli stessi cittadini. Siano esempio di quanto da ultimo dichiarato le tantissime disapplicazioni incontrate dai risultati referendari: a tal proposito, anziché discutere di referendum d’indirizzo e propositivi, del numero di firme, del quorum e del nuovo quarto comma dell’art. 75, bisognerebbe interrogarsi piuttosto su come imporre che la volontà referendaria non venisse costantemente tradita. Non ci si accusi di facile demagogia, ma è tragicamente evidente a tutti come la gran parte dei parlamentari troppo spesso si mostri preoccupata in maniera esclusiva dall’esigenza di conservare la propria seggiola, foss’anche in qualche posto di sotto-sotto-sotto governo e pure a costo di cambiare casacca ad ogni cambio di vento, di vendere il proprio voto al miglior offerente o di approvare senza discutere qualsiasi sciocchezza venga dall’esecutivo loro proposta (o addirittura imposta tramite il ricatto della questione di fiducia).
Di fronte ad uno scenario tanto sconfortante è comprensibile che un numero sempre maggiore di italiani e di italiane sia preda del disgusto e reagisca ritirandosi nell’apatia, nell’indifferenza, nell’astensione. D’altro canto, non è questa la condizione ideale in cui qualsiasi “manovratore” (mi si perdoni la terminologia cospirazionistica) desidererebbe lasciare i propri sudditi?

Ed allora, a che pro impegnarsi per contrastare la de-forma costituzionale sostenuta dal ticket Renzi-Boschi? Allora, più in generale, a che pro impegnarsi per tutelare il bene collettivo e la buona amministrazione della cosa pubblica? Innanzitutto, vale la pena ricordare quanto soleva ripetere un valente politico bresciano della cosiddetta ‘prima repubblica’: «anche se i cittadini non si interessano della politica, la politica continua a interessarsi a loro». In particolare, siamo fermamente convinti dell’esigenza di dibattere e di avversare diffusamente questa proposta di (contro)riforma della Costituzione per tutta una lunga serie di ragioni. La principale di queste, a nostro giudizio, è una ragione di lungo respiro: un sì alla (de)forma Renzi-Boschi sarebbe niente più – come dicevamo sopra – che un suggello all’ignobile andazzo … pardon, consuetudine istituzionale, basata sul sostanziale superamento della tradizionale separazione dei poteri di impronta illuministica, a tutto vantaggio di un indebito incremento (in assenza di validi controbilanciamenti) del potere esecutivo.

Ma una vittoria del NO dovrà essere solo il primo passo nella direzione di un recupero pieno, assoluto, indiscutibile dello spirito originario voluto dai padri costituenti, forgiato nella terribile esperienza della Resistenza e dell’antifascismo: la centralità del ruolo decisorio del popolo e, quindi, dei suoi rappresentanti nella definizione di quelle scelte politiche destinate ad incidere sul nostro presente e sul futuro delle prossime generazioni di italiani e italiane.

Per questo bisogna sgomberare subito il campo da perniciosi equivoci di basso livello: l’avversione a questa proposta di revisione costituzionale non può e non deve scaturire dall’identità dei suoi autori né dai potenziali effetti del referendum sulle sorti dell’attuale governo. Sebbene il primo a tentare l’insidiosa strategia della personalizzazione del confronto sia stato proprio il sig. Matteo Renzi (il quale però in queste ultime settimane pare sia stato colto da una salutare resipiscenza), non dobbiamo dimenticare che i Governi ed i leaders passano, ma la Costituzione invece RESTA a fissare i diritti ed i doveri per noi e per le generazioni future: il voto sulla Carta Costituzionale, sui suoi principi e sulle sue regole non può essere trasformato in un atto di fede nei confronti di questa o di quella persona.

Semmai, occorrerebbe porsi una domanda a mo’ di premessa: parlamentari eletti in forza di una legge, il “porcellum”, dichiarata incostituzionale e sostanzialmente prescelti nelle segrete stanze delle segreterie dei partiti avrebbero avuto la legittimazione politica – se non addirittura la legittimità giuridica – per dare corso ad una trasformazione così profonda del tessuto normativo costituzionale?

Pure il solito refrain del “c’è bisogno di un rinnovamento” lascia un po’ il tempo che trova: il nuovo non sempre coincide con il meglio, anzi – e questo ne è proprio il caso – le novità possono pure essere peggiorative. Non si possono giudicare a prescindere, prima di averne compiuto un’attenta valutazione.

A tal proposito, dal quadro generale dell’intero disegno di (de)forma costituzionale pare emergere un indirizzo strategico chiaro: il rafforzamento dei poteri del governo e la decisa riduzione degli spazi di partecipazione e coinvolgimento del popolo nella definizione delle scelte politiche.

Anche qua non ci troviamo di fronte a nulla di nuovissimo: i cittadini italiani avevano già perso il diritto di votare i propri rappresentanti provinciali; a chi volete che importi se ora perdono pure quello di scegliere i senatori della Repubblica? Le comunità locali territoriali in questi anni hanno sofferto uno strangolamento senza precedenti causato da vincoli di bilancio sempre più stringenti; cosa volete che sia una drastica riduzione delle competenze in carico alle Regioni (e di conseguenza agli Enti da queste delegati)?

Altro argomento solo apparentemente “forte” speso ad ogni pie’ sospinto dai sostenitori di questa proposta di (contro)riforma consiste nel presunto risparmio economico che essa genererebbe. Ma persino in quest’epoca di “antipolitica” imperante, ha poco senso addurre giustificazioni economiche per sostenere la bontà di qualsiasi progetto di riforma della Carta. Un sistema costituzionale andrebbe valutato secondo ben altri parametri che non la semplice contabilità dei risparmi e dei costi: quanto fedelmente esso rappresenta la volontà dei cittadini, quanto riesce a garantire un bilanciamento tra i vari poteri dello Stato, quanto risulta efficace nel rispondere ai bisogni della popolazione.

Anche a voler abbandonare il puro piano dei principi, il progetto di stravolgimento della Costituzione sostenuto dal due Renzi-Boschi in realtà non fornirebbe grandi riduzioni di spesa. Lo dimostra, soprattutto, l’esperienza di quest’ultimo biennio in cui alla sottrazione del potere dei cittadini di votare i consiglieri provinciali (compiuto dalla legge Del Rio) non è conseguito un calo drastico nei costi inerenti il funzionamento dell’Ente Provincia. Lo stesso potrebbe verosimilmente attendersi qualora passasse la definitiva soppressione di questo ente (nuovo art. 114), per il semplice motivo che non ne sarebbero cancellate le competenze né gli uffici né le risorse umane e materiali: ciò che non verrà più fatto dalle Province non scomparirà, ma sarà semplicemente trasferito a qualche altro ente, magari un po’ più lontano dai cittadini e dal territorio.

Ancor peggiore si configura il disegno di svilimento del ruolo del Senato. I sostenitori della deforma costituzionale vogliono ridurne i membri da 315 a 100 (74 consiglieri regionali e 21 sindaci nominati dai Consiglieri regionali e 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica per sette anni. Nuovo comma 1° dell’art. 57) vantando l’ “enorme” risparmio che ciò comporterebbe. Abbiamo già detto sopra che l’argomento meramente economico serve giusto a solleticare qualche velleità populistica e che esso, da solo, non può bastare per motivare un intervento così drastico sulla normativa costituzionale. Basti aggiungere, tanto per fare un paragone, che il Governo Renzi conta 64 fra ministri, viceministri, sottosegretari, eccetera e la sola Presidenza del Consiglio dei Ministri costa ogni anno oltre 3,5 miliardi di euro, tanto quanto SEI Senati della Repubblica messi assieme!

Semmai il problema è un altro: questi 100 senatori non saranno eletti dai cittadini bensì scelti dai Consigli regionali fra i propri stessi componenti e fra i sindaci di ciascuna Regione (i quali però non abbandoneranno, una volta nominati, i propri rispettivi incarichi): Palazzo Madama si trasformerà così in un “parcheggio di lusso” dove senatori e senatrici a mezzo servizio verranno (se e quando verranno) di tanto in tanto a fare non si sa bene cosa. Quest’ultima affermazione ci permette di esporre una breve considerazione proprio sull’aspetto che riteniamo più grave di questa ipotesi di stravolgimento della Carta Costituzionale: il Senato della Repubblica così rivisto dovrebbe rappresentare (unicamente?) le istituzioni territoriali (nuovo comma 5° dell’art. 55) e non più l’intera Nazione, ma non si capisce come potrebbe svolgere in concreto e in modo efficace tale funzione. Il Senato riformato infatti perderà il legame fiduciario con il governo (nuovo art. 94) e perderà soprattutto – con l’eccezione di alcune, limitatissime materie (revisione costituzionale, referendum, elettorato, ordinamento dello Stato, trattati dell’U.E., …) per le quali è ben facile profetizzare un incremento dei conflitti di competenza fra Camere – la funzione legislativa generalizzata di cui avrà l’esclusiva soltanto la Camera dei deputati (nuovi artt. 70 e seguenti). Insomma, a ben guardare, sembra più efficace ed ampia la capacità di rappresentare le istanze territoriali posseduta oggi dalla Conferenza Stato-Regioni-Enti locali che non quella di cui potrà godere il futuro Senato.

Persino il procedimento legislativo ordinario viene stravolto, complicato e, in taluni casi, addirittura vincolato ai voleri del Governo, al quale il nuovo art. 72 ultimo comma intenderebbe riconoscere il potere di dettare i tempi (contingentati) alla Camera dei deputati per votare un disegno di legge (senza che, al contempo, sia in alcun modo prevista l’abrogazione dell’istituto regolamentare della c.d. “questione di fiducia”). E sì che quando la volontà politica è ben chiara e netta (per esempio quando si è trattato di ridurre i tempi della prescrizione o di disciplinare il sistema delle immunità) Camera e Senato dimostrano già ora di essere in grado di approvare una legge in tempi rapidissimi.

Qualora la (contro)riforma costituzionale dovesse passare, è facile prevedere un futuro caratterizzato dall’incapacità del corpo legislativo di svolgere il proprio mestiere, cioè appunto fare le leggi, a tutto vantaggio – a quel punto – del potere sostitutivo di un governo (qualunque esso sia ed a qualunque schieramento esso appartenga) tramite decreti legge e decreti legislativi di cui, purtroppo, da tempo si registra un abnorme abuso, pure a Costituzione invariata.


Proprio per questo motivo, il tuo NO al referendum costituzionale del 4 dicembre non basta a ‘invertire la rotta’. Il tuo NO deve segnare invece l’avvio, il primo passo per un pieno “ritorno alla Costituzione” repubblicana, democratica, popolare ed antifascista nata – come eternato dalle parole di Calamandrei – “… nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità della nazione”.

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