sabato 21 novembre 2015
Perchè Parigi?
sebbene di fronte ad avvenimenti tanto mostruosi e disumani quali quelli che hanno colpito Parigi, sia difficilissimo riuscire a ricorrere agli strumenti della ragione, pur tuttavia è indispensabile cercare di comprendere - se ve n'è la possibilità - da quali fattori concreti possa essere stata favorita l'esplosione di tanta ferocia, in quali radici (ben più vicine di quanto ci aspetteremmo) possa affondare la malapianta del fanatismo religioso.
Per farlo, ci permettiamo di riportare qui appresso due interessanti articoli pubblicati nei giorni scorsi da due giornali certamente non sospettabili di simpatie filoislamiche: il settimanale "Famiglia Cristiana" ed il quotidiano "Il Sole 24ore"
Francia: almeno smettiamola con le
chiacchiere
Da anni, ormai, si sa che cosa
bisogna fare per fermare l'Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla,
e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell'aereo
russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui
giornali.
15/11/2015, di Fulvio Scaglione
E’ inevitabile, ma non per questo
meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una
nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi
giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. E’ la
nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro
fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i
corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi
inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’ unico dei
terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è
stato “riconosciuto” dall’ impronta presa da un dito, l’ unica parte del corpo
rimasta intatta dopo l’ esplosione della cintura da kamikaze che indossava.
Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i
provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in
queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice (come
tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush, ormai
riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo
di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori
del Medio Oriente.
Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa
il suo corso. Dell’ Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’
è nulla da scoprire. E’ un movimento terroristico che ha sfruttato le
repressioni del dittatore siriano Bashar al Assad per presentarsi sulla scena:
armato, finanziato e organizzato dalle monarchie del Golfo (prima fra tutte l’
Arabia Saudita) con la compiacenza degli Stati Uniti e la colpevole
indifferenza dell’ Europa.
Quando l’ Isis si è allargato troppo, i suoi mallevadori l’ hanno
richiamato all’ ordine e hanno organizzato la coalizione americo-saudita che,
con i bombardamenti, gli ha messo dei paletti: non più in là di tanto in Iraq,
mano libera in Siria per far cadere Assad. Il tutto mentre da ogni parte, in
Medio Oriente, si levava la richiesta di combatterlo seriamente, di eliminarlo,
anche mandando truppe sul terreno. Innumerevoli in questo senso gli appelli dei
vescovi e dei patriarchi cristiani, ormai chiamati a confrontarsi con la
possibile estinzione delle loro comunità.
Abbiamo fatto qualcosa di tutto questo? No. La Nato, ovvero l’ alleanza
militare che rappresenta l’ Occidente, si è mossa? Sì, ma al contrario. Ha
assistito senza fiatare alle complicità con l’ Isis della Turchia di Erdogan,
ma si è indignata quando la Russia è intervenuta a bombardare i ribelli
islamisti di Al Nusra e delle altre formazioni.
Nel frattempo l’ Isis, grazie a Putin finalmente in difficoltà sul
terreno, ha esportato il suo terrore. Ha abbattuto sul Sinai un aereo di
turisti russi (224 morti, molti più di quelli di Parigi) ma a noi (che adesso
diciamo che quelli di Parigi sono attacchi “conto l’ umanità”) è importato
poco. Ha rivendicato una strage in un mercato di Beirut, in Libano, e ce n’ è
importato ancor meno. E poi si è rivolto contro la Francia.
Abbiamo fatto qualcosa? No. Abbiamo provato a tagliare qualche canale
tra l’ Isis e i suoi padrini? No. Abbiamo provato a svuotare il Medio Oriente
di un po’ di armi? No, al contrario l’ abbiamo riempito, con l’ Arabia Saudita
e gli Emirati Arabi Uniti ai primi posti nell’ importazione di armi, vendute (a
loro e ad altri) dai cinque Paei che siedono nel Consiglio di Sicurezza
(sicurezza?) dell’ Onu: Usa, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia.
Solo l’ altro giorno, il nostro premier Renzi (che come tutti ora parla
di attacco all’ umanità) era in Arabia Saudita a celebrare gli appalti raccolti
presso il regime islamico più integralista, più legato all’ Isis e più dedito
al sostegno di tutte le forme di estremismo islamico del mondo. E nessuno,
degli odierni balbettatori, ha speso una parola per ricordare (a Renzi come a
tutti gli altri) che il denaro, a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza.
Perché la verità è questa: se vogliamo eliminare l’ Isis, sappiamo
benissimo quello che bisogna fare e a chi bisogna rivolgersi. Facciamoci
piuttosto la domanda: vogliamo davvero eliminare l’ Isis? E’ la nostra
priorità? Poi guardiamoci intorno e diamoci una risposta. Ma che sia sincera,
per favore. Di chiacchiere e bugie non se ne può più.
Le ambiguità di Erdogan
16 Novembre 2015, di Alberto Negri e con analisi di
Adriana Cerretelli, Ugo Tramballi, Vittorio Da Rold, Joseph Cohen e Rapahel
Zaguryy-Orly
Alla vigilia delle elezioni, dopo
l’attentato di Ankara con oltre 100 morti, il braccio destro di Tayyp Erdogan,
Ahmet Davutoglu, definì il Califfato «ingrato e traditore».
Più che una gaffe, questi termini
sono apparsi un’ammissione di colpa. Non mancano infatti le prove, se non di
amicizia, almeno di compiacenza, della Turchia nei confronti dello Stato
islamico.
Erdogan è uno dei prìncipi
dell’ambiguità mediorientale presenti al G-20 di Antalya. La guerra al
Califfato è una vicenda in cui la Turchia ha giocato un ruolo essenziale con la
complicità delle potenze occidentali e di quelle sunnite che in Siria hanno
condotto un conflitto per procura all’Iran sciita. La svolta sono stati i
negoziati sul nucleare con Teheran che hanno alimentato ancora di più la
preoccupazione delle monarchie del Golfo per l'influenza iraniana.
Più si avvicinava un’intesa con
l’Iran e maggiori diventavano le offensive dell’Isil. Dopo Mosul, cadevano
Ramadi e Falluja. Eppure la guerra della coalizione a guida americana restava
inefficace: il 70% dei raid non trovava neppure il bersaglio. Ci si chiedeva
come fosse possibile che non si riuscisse a fermare i jihadisti.
La realtà è che il Califfato faceva
comodo come mezzo di pressione per convincere gli iraniani ad arrivare a un
accordo. Mentre si negoziava con gli ayatollah, la Francia ne approfittava per
vendere aerei e centrali nucleari all’Arabia Saudita che negli anni precedenti
si era compiaciuta del grande numero di jihadisti francesi ed europei che
dall’ospitale confine turco andavano a combattere Assad.
La regia è stata americana con
l’obiettivo di contenere sia gli sciiti iraniani che i sunniti, una replica
della politica del “doppio contenimento” già attuata negli anni 80 durante il
conflitto Iran-Iraq. Alle conferenze internazionali americani ed europei
accreditavano un’opposizione moderata siriana inesistente, ben sapendo che i
veri protagonisti erano i gruppi jihadisti poi confluiti nell’Isis. Le guerre
dentro l’Islam, il nodo fondamentale della questione mediorientale, sono state
usate, non diversamente dal passato, come uno strumento per mantenere equilibri
di potenza e fare affari. Un’attività che per altro vede gli americani sempre
meno interessati a essere coinvolti direttamente: scottati dall’Afghanistan e
dall’Iraq, sempre meno dipendenti dal petrolio del Golfo, gli Usa hanno cercato
di scaricare il Medio Oriente e i suoi guai settari alle potenze regionali e
all’Europa. Gli europei, dopo il fiasco della Libia, hanno esitato e ci sono
volute ondate di profughi per mobilitarli: anche i rifugiati sono stati usati
come arma di pressione in questo conflitto.
Tra i prìncipi dell’ambiguità,
Erdogan ha sempre avuto chiaro come obiettivo quello di abbattere Assad e di
penetrare militarmente ed economicamente in un’area che va dall’irachena Mosul
alla siriana Aleppo. Con due scopi: riempire il vuoto di potere lasciato dal
regime alauita di Damasco e impedire ai curdi di costituire un regione indipendente
ai confini del Kurdistan turco. L’Isil rientrava perfettamente nei piani del
presidente turco perché destabilizzava il Siraq e poteva contrattare l’appoggio
ai jihadisti con uno scambio territoriale. Per questo ha esitato fino
all’ultimo a dichiarare guerra all’Isil e a concedere agli Usa la base di
Incirlik: un paio di raid sul Califfato e 300 sui curdi del Pkk o siriani,
questa è l’attuale media turca.
Ma l’intesa con l’Iran ha reso meno
utile per gli occidentali il Califfato come arma di pressione su Teheran e
l’intervento russo ha sparigliato ancora di più le carte della sanguinosa
partita siriana. L’Isil ha dato via libera agli attentati in Turchia quando
Erdogan ha dovuto cedere alla realpolitik e alle richieste Usa di iniziare la
guerra ai jihadisti per bilanciare militarmente la presenza di Mosca. «Siete o
non siete un Paese della Nato?», hanno detto gli americani ai turchi.
Il terrorismo che arriva nel cuore
dell’Europa è una sorta di risacca di questo conflitto, dei tradimenti e degli
opportunismi dei protagonisti. C’è un prezzo per tutto e ora pagano gli
innocenti, a Parigi come ad Aleppo.
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