sabato 6 febbraio 2016

Dieci, cento, mille Zanzanù!




In occasione della partecipata manifestazione di solidarietà tenutasi oggi a Desenzano, contro il raid poliziesco che ha condotto allo sgombero del Centro Sociale Occupato Zanzanù, rilanciamo qui di seguito il comunicato di solidarietà che, nell'immediatezza dell'evento, era stato diffuso dal Centro sociale di Rovato:

Il mais non può aspettarsi giustizia da un tribunale composto di polli. (Proverbio africano)

Il 2 febbraio 2016 abbiamo assistito all’ennesimo atto di violenza perpetrato dal potere coercitivo delle Stato e dei suoi rappresentanti: il nuovo Centro Sociale Occupato Zanzanù, che il 21 dicembre 2015 ha liberato dalle logiche del mercato e del profitto e restituito alle comunità ribelli del lago di Garda l’ex ristorante della Spiaggia d’Oro a Rivoltella di Desenzano del Garda ( Brescia), è stato sgomberato.

Questa esperienza di lotta ed autogestione doveva continuare ad esistere!!! 

Il Centro Sociale 28 maggio esprime la propria solidarietà e il proprio sostegno alla lotta per la rivendicazione di spazi sociali alternativi; l’esperienza dell’autogestione dei compagni del CSO Zanzanù ha strappato dalle mani degli speculatori  un luogo con potenzialità aggregative notevoli che si sono da subito espresse in cineforum, concerti, reading, aperitivi e cene solidali, mostre d’arte, balli popolari, dibattiti, passa libri e doposcuola. Questo luogo di aggregazione e socialità è da subito diventato punto di riferimento e incontro per riunioni di associazioni e collettivi impegnati sul territorio in interventi  politici, sociali e culturali di vitale importanza per il movimento anticapitalista bresciano.

Zanzanù è nato per fare da collante sociale e conflittuale: ricordiamo le realtà che qui trovano spazio e sostegno: il Comitato NOTAV di Desenzano così come lo sportello antisfratti e antipignoramenti del Collettivo Gardesano Autonomo, il supporto alla lotta della logistica che proprio su questo territorio è particolarmente fertile, e non ultimo l’impegno antirazzista nei confronti dei profughi. É anche a causa di queste lotte che le autorità deputate all’ordine pubblico (sic!) hanno deciso l’interruzione brutale di questa esperienza.

Questo potere sa solo distruggere attraverso l’austerity, la precarietà, lo smantellamento dello stato sociale, l’espropriazione dei diritti sociali e la desertificazione culturale attraverso il pensiero unico e la fabbrica dell’ignoranza e della stupidità. Per giustificare questa ennesima azione distruttiva,  hanno tirato in ballo la solita solfa dell’illegalità; noi sappiamo che questo mantra è parte di un attacco complessivo e di una guerra aperta alle occupazioni e alle esperienze di autorganizzazione dal basso in corso in tutta Italia. A questa normale disinformazione, a cui dà man forte il sistema mediatico mainstream, noi rispondiamo ricordando che in nome della legalità, come dice Giorgio Cremaschi, si sta sempre più alzando l’asticella della ferocia sociale: pensiamo alla vergognosa campagna mediatica contro gli occupanti di case. Nel “rispetto” di questa loro legalità vengono perpetrate le peggiori infamie: per esempio gli sgomberi di intere famiglie che perdono il diritto ad un tetto e vengono sacrificate sull’altare degli interessi fondiari. Ribellarsi a questa legalità non è solo necessario, è giusto ed è il solo modo di restare umani.

Per noi compagne e compagni del Centro Sociale 28 maggio  l’esperienza del CSO Zanzanù è legittima perché la  legittimità  non dipende dalla sua origine, fosse anche illegale, ma dai suoi fini. Ed i fini di spazi aggregativi come Zanzanù sono un vero e proprio strumento di solidarietà attiva che si contrappone alla perdita di senso, valori e ideali.

Pensiamo al tasso di disoccupazione dei giovani in Italia, all’esodo di molti che ormai, come i loro fratelli che arrivano qui, sono costretti ad emigrare per cercare lavoro all’estero. Cosa pensa di fare questa classe politica, le cui azioni sono sempre più minimaliste e meschine, per dare un po’ di speranza a questa generazione sacrificata sull’altare delle banche e della finanza?

Le forze politiche hanno cercato, senza vergogna alcuna, così come tristi gruppuscoli di estrema destra, di mettere in atto una campagna denigratoria ai danni del CSO Zanzanù, e l’hanno fatto per preparare il terreno allo sgombero. Sono quelle stesse forze che mai si interessano di aprire spazi sociali, ma solo di garantire la legalità attraverso i diritti della proprietà privata. Sulla pelle dei resistenti e dei solidali costruiscono le loro miserabili campagne elettorali, in un degrado politico abissale con temi poveri di slancio ideale come i conti dell’oste.

L’amministrazione di Desenzano ha pensato che lasciar vivere il CSO Zanzanù nuocesse alla sua immagine nel panorama politico locale, ed ha creduto di poter fermare con uno sgombero la capacità dei compagni di dare vita a realtà ricche di senso, compagni capaci di trasformare luoghi degradati dall’incuria della proprietà in beni comuni.
Ovunque lo spazio viene privatizzato: le strade, le piazze, i marciapiedi, le ferrovie, gli aeroporti persino gli ospedali: il segno indelebile della sudditanza del pubblico al privato è simboleggiata dai pannelli pubblicitari giganti che campeggiano ovunque, restano i cimiteri come ultimo baluardo che ancora resiste alla pubblicità; persino le spiagge vengono negate a chi non ha soldi per pagarsi il lettino, così come è impossibile fare pipì senza pagare un obolo, salvo essere poi denunciati nel caso si cerchi di espletare questa funzione biologica propria a tutti in qualche angolino lontano dalla vista altrui.
Il nostro ecosistema viene distrutto: il diritto all’acqua sostituito con l’accesso all’acqua, le acque imbrigliate e messe in bottiglia, le fontanelle chiuse, le foreste disboscate, i saperi antichi dimenticati o privatizzati, la scuola messa al servizio dell’impresa, e la povertà diventa un crimine: persino le panchine sradicate per eliminare la vista del disagio sociale. Il sistema è talmente inquinato da questa mentalità privatistica e legata in un abbraccio mortale ai destini dell’impresa che anche il linguaggio impazzisce e possiamo ascoltare politici corrotti intellettualmente parlare di “ecosistema commerciale”. Rendiamoci conto dell’assurdità di parole simili accostate.
I beni comuni ormai sono un concetto sfruttato anche da chi li combatte e questa banalizzazione è strumentale alla loro inefficacia semantica, per chiarire il concetto dobbiamo ormai parlare di beni comuni anticapitalistici, questa specificazione è d’obbligo, perché il mercato e il profitto, come melma putrida, intasano ogni possibilità di vita, arrivando fino a violare il corpo dell’essere umano, la sua integrità, dopo aver impietosamente distrutto i nostri rapporti con l’ambiente e gli animali: esseri viventi sacrificati anch’essi sull’altare del dio denaro.
I centri sociali, gli orti comuni, le banche del tempo, i gruppi di acquisto solidale, le pratiche di baratto, il riutilizzo di oggetti di seconda mano, le cucine popolari sono alcuni esempi di lotta contro il neoliberismo. I beni comuni anticapitalisti sono spazi di società alternativa al sistema basato sulla proprietà privata e lo sfruttamento della forza lavoro.
Per distinguerci dobbiamo modificare le nostre relazioni sociali. Senza una loro profonda trasformazione non c’è valore comune che possa come una calamita accrescere la nostra capacità aggregante. Il pericolo maggiore che si corre è quello di trasformare questi beni comuni in luoghi in cui si forniscono a basso costo forme di riproduzione sociale attraverso la cooptazione dei beni stessi o lavoro non pagato, come volontariato che compensa tagli nei servizi sociali introdotti con la scusa della crisi economica.
Esiste anche un valore sociale e i padroni lo sanno: questo valore serve da collante per la coesione sociale, noi però non siamo per una società sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale incorporata all’interno della sistema capitalistico, non ci crediamo perché il capitale ci toglie e ci toglierà tutto quello che potrà, fino all’ultimo respiro e l’illusione serve anche a questo, farci fare un respiro in più …
Noi non crediamo al capitalismo dal volto umano, il capitalismo ha il volto della morte, e se non lo vediamo noi quel volto lo vedono i nostri fratelli che muoiono sotto le bombe o attraversando il mare sui barconi, fuggendo dai luoghi dove non esiste infanzia, ma solo fame, malattie e desolazione, dove l’inquinamento ha reso la terra un luogo inabitabile. Per questo i beni comuni devono essere molto di più di una gestione comune delle risorse di qualsiasi genere di risorse si tratti.  Per noi devono creare società egualitarie e cooperative, essere spazi autonomi in cui tutti gestiscono tutto, spazi che devono liberare sempre di più le nostre vite.
I beni comuni anticapitalistici si conquistano, non sono solo materiali, perché il loro carattere è relazionare. Devono portare benessere, devono essere controllati e gestiti insieme, presuppongono una comunità di riferimento e questa comunità si deve aggregare sulla base del lavoro di cura svolto nella loro riproduzione. Implicano obblighi quanto diritti, reciprocità, processi decisionali collettivi, forme di gestione dal basso, rotazione degli incarichi. Nessuna discriminazione di genere deve sfiorarli.
Per noi questo è il passo giusto nella direzione giusta, quella che ci vede sganciati dallo spazio, dal tempo e dal modo di produzione esistente. Mettiamo le nostre vite in comune, organizziamoci sulla base dei nostri bisogni e delle nostre necessità, combattiamo ogni forma di esclusione e gerarchizzazione. E gridiamo forte e chiaro:
uno, due, tre, quattro, cinque … dieci … cento … ZANZANÚ !!!

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