sabato 6 febbraio 2016
Dieci, cento, mille Zanzanù!
In occasione della partecipata manifestazione di solidarietà tenutasi oggi a Desenzano, contro il raid poliziesco che ha condotto allo sgombero del Centro Sociale Occupato Zanzanù, rilanciamo qui di seguito il comunicato di solidarietà che, nell'immediatezza dell'evento, era stato diffuso dal Centro sociale di Rovato:
Il mais non può aspettarsi giustizia da un tribunale
composto di polli. (Proverbio africano)
Questa esperienza di lotta ed autogestione doveva continuare
ad esistere!!!
Il Centro Sociale 28 maggio esprime la propria solidarietà e
il proprio sostegno alla lotta per la rivendicazione di spazi sociali
alternativi; l’esperienza dell’autogestione dei compagni del CSO Zanzanù ha
strappato dalle mani degli speculatori
un luogo con potenzialità aggregative notevoli che si sono da subito
espresse in cineforum, concerti, reading, aperitivi e cene solidali, mostre
d’arte, balli popolari, dibattiti, passa libri e doposcuola. Questo luogo di
aggregazione e socialità è da subito diventato punto di riferimento e incontro
per riunioni di associazioni e collettivi impegnati sul territorio in
interventi politici, sociali e culturali
di vitale importanza per il movimento anticapitalista bresciano.
Zanzanù è nato per fare da collante sociale e conflittuale:
ricordiamo le realtà che qui trovano spazio e sostegno: il Comitato NOTAV di
Desenzano così come lo sportello antisfratti e antipignoramenti del Collettivo
Gardesano Autonomo, il supporto alla lotta della logistica che proprio su
questo territorio è particolarmente fertile, e non ultimo l’impegno
antirazzista nei confronti dei profughi. É anche a causa di queste lotte che le
autorità deputate all’ordine pubblico (sic!) hanno deciso l’interruzione
brutale di questa esperienza.
Questo potere sa solo distruggere attraverso l’austerity, la
precarietà, lo smantellamento dello stato sociale, l’espropriazione dei diritti
sociali e la desertificazione culturale attraverso il pensiero unico e la
fabbrica dell’ignoranza e della stupidità. Per giustificare questa ennesima
azione distruttiva, hanno tirato in
ballo la solita solfa dell’illegalità; noi sappiamo che questo mantra è parte
di un attacco complessivo e di una guerra aperta alle occupazioni e alle esperienze
di autorganizzazione dal basso in corso in tutta Italia. A questa normale
disinformazione, a cui dà man forte il sistema mediatico mainstream, noi
rispondiamo ricordando che in nome della legalità, come dice Giorgio Cremaschi,
si sta sempre più alzando l’asticella della ferocia sociale: pensiamo alla
vergognosa campagna mediatica contro gli occupanti di case. Nel “rispetto” di
questa loro legalità vengono perpetrate le peggiori infamie: per esempio gli
sgomberi di intere famiglie che perdono il diritto ad un tetto e vengono
sacrificate sull’altare degli interessi fondiari. Ribellarsi a questa legalità
non è solo necessario, è giusto ed è il solo modo di restare umani.
Per noi compagne e compagni del Centro Sociale 28
maggio l’esperienza del CSO Zanzanù è
legittima perché la legittimità non dipende dalla sua origine, fosse anche
illegale, ma dai suoi fini. Ed i fini di spazi aggregativi come Zanzanù sono un
vero e proprio strumento di solidarietà attiva che si contrappone alla perdita
di senso, valori e ideali.
Pensiamo al tasso di disoccupazione dei giovani in Italia,
all’esodo di molti che ormai, come i loro fratelli che arrivano qui, sono
costretti ad emigrare per cercare lavoro all’estero. Cosa pensa di fare questa
classe politica, le cui azioni sono sempre più minimaliste e meschine, per dare
un po’ di speranza a questa generazione sacrificata sull’altare delle banche e
della finanza?
Le forze politiche hanno cercato, senza vergogna alcuna,
così come tristi gruppuscoli di estrema destra, di mettere in atto una campagna
denigratoria ai danni del CSO Zanzanù, e l’hanno fatto per preparare il terreno
allo sgombero. Sono quelle stesse forze che mai si interessano di aprire spazi
sociali, ma solo di garantire la legalità attraverso i diritti della proprietà
privata. Sulla pelle dei resistenti e dei solidali costruiscono le loro
miserabili campagne elettorali, in un degrado politico abissale con temi poveri
di slancio ideale come i conti dell’oste.
L’amministrazione di Desenzano ha pensato che lasciar vivere
il CSO Zanzanù nuocesse alla sua immagine nel panorama politico locale, ed ha
creduto di poter fermare con uno sgombero la capacità dei compagni di dare vita
a realtà ricche di senso, compagni capaci di trasformare luoghi degradati
dall’incuria della proprietà in beni comuni.
Ovunque lo spazio viene privatizzato: le strade, le piazze,
i marciapiedi, le ferrovie, gli aeroporti persino gli ospedali: il segno
indelebile della sudditanza del pubblico al privato è simboleggiata dai
pannelli pubblicitari giganti che campeggiano ovunque, restano i cimiteri come
ultimo baluardo che ancora resiste alla pubblicità; persino le spiagge vengono
negate a chi non ha soldi per pagarsi il lettino, così come è impossibile fare
pipì senza pagare un obolo, salvo essere poi denunciati nel caso si cerchi di
espletare questa funzione biologica propria a tutti in qualche angolino lontano
dalla vista altrui.
Il nostro ecosistema viene distrutto: il diritto all’acqua
sostituito con l’accesso all’acqua, le acque imbrigliate e messe in bottiglia,
le fontanelle chiuse, le foreste disboscate, i saperi antichi dimenticati o
privatizzati, la scuola messa al servizio dell’impresa, e la povertà diventa un
crimine: persino le panchine sradicate per eliminare la vista del disagio
sociale. Il sistema è talmente inquinato da questa mentalità privatistica e
legata in un abbraccio mortale ai destini dell’impresa che anche il linguaggio
impazzisce e possiamo ascoltare politici corrotti intellettualmente parlare di
“ecosistema commerciale”. Rendiamoci conto dell’assurdità di parole simili
accostate.
I beni comuni ormai sono un concetto sfruttato anche da chi
li combatte e questa banalizzazione è strumentale alla loro inefficacia
semantica, per chiarire il concetto dobbiamo ormai parlare di beni comuni
anticapitalistici, questa specificazione è d’obbligo, perché il mercato e il
profitto, come melma putrida, intasano ogni possibilità di vita, arrivando fino
a violare il corpo dell’essere umano, la sua integrità, dopo aver
impietosamente distrutto i nostri rapporti con l’ambiente e gli animali: esseri
viventi sacrificati anch’essi sull’altare del dio denaro.
I centri sociali, gli orti comuni, le banche del tempo, i
gruppi di acquisto solidale, le pratiche di baratto, il riutilizzo di oggetti
di seconda mano, le cucine popolari sono alcuni esempi di lotta contro il
neoliberismo. I beni comuni anticapitalisti sono spazi di società alternativa
al sistema basato sulla proprietà privata e lo sfruttamento della forza lavoro.
Per distinguerci dobbiamo modificare le nostre relazioni
sociali. Senza una loro profonda trasformazione non c’è valore comune che possa
come una calamita accrescere la nostra capacità aggregante. Il pericolo
maggiore che si corre è quello di trasformare questi beni comuni in luoghi in
cui si forniscono a basso costo forme di riproduzione sociale attraverso la
cooptazione dei beni stessi o lavoro non pagato, come volontariato che compensa
tagli nei servizi sociali introdotti con la scusa della crisi economica.
Esiste anche un valore sociale e i padroni lo sanno: questo
valore serve da collante per la coesione sociale, noi però non siamo per una
società sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale incorporata
all’interno della sistema capitalistico, non ci crediamo perché il capitale ci
toglie e ci toglierà tutto quello che potrà, fino all’ultimo respiro e
l’illusione serve anche a questo, farci fare un respiro in più …
Noi non crediamo al capitalismo dal volto umano, il
capitalismo ha il volto della morte, e se non lo vediamo noi quel volto lo
vedono i nostri fratelli che muoiono sotto le bombe o attraversando il mare sui
barconi, fuggendo dai luoghi dove non esiste infanzia, ma solo fame, malattie e
desolazione, dove l’inquinamento ha reso la terra un luogo inabitabile. Per
questo i beni comuni devono essere molto di più di una gestione comune delle
risorse di qualsiasi genere di risorse si tratti. Per noi devono creare società egualitarie e
cooperative, essere spazi autonomi in cui tutti gestiscono tutto, spazi che
devono liberare sempre di più le nostre vite.
I beni comuni anticapitalistici si conquistano, non sono
solo materiali, perché il loro carattere è relazionare. Devono portare
benessere, devono essere controllati e gestiti insieme, presuppongono una
comunità di riferimento e questa comunità si deve aggregare sulla base del
lavoro di cura svolto nella loro riproduzione. Implicano obblighi quanto
diritti, reciprocità, processi decisionali collettivi, forme di gestione dal
basso, rotazione degli incarichi. Nessuna discriminazione di genere deve
sfiorarli.
Per noi questo è il passo giusto nella direzione giusta,
quella che ci vede sganciati dallo spazio, dal tempo e dal modo di produzione
esistente. Mettiamo le nostre vite in comune, organizziamoci sulla base dei
nostri bisogni e delle nostre necessità, combattiamo ogni forma di esclusione e
gerarchizzazione. E gridiamo forte e chiaro:
uno, due, tre, quattro,
cinque … dieci … cento … ZANZANÚ !!!
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