Nel 2016 il Consiglio d’Europa, su ricorso della Cgil, ha richiamato l’Italia sia per le difficoltà di applicazione della legge sia per la «discriminazione» nei confronti del personale sanitario non obiettore. L’anno dopo ha fatto lo stesso il comitato dei diritti umani dell’Onu, sottolineando come questi ostacoli portino a un aumento degli aborti clandestini. Con i suoi rischi e le sue tragedie. È la stessa legge 194, del resto, a imporre che «l’espletamento delle procedure» e «l’effettuazione degli interventi richiesti» debbano essere garantiti, ma nella realtà le cose vanno molto diversamente.
martedì 22 maggio 2018
Quarant'anni di legge 194
Era il 22 maggio 1978 quando in Italia fu promulgata la
legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, dopo un’aspra battaglia
che spaccò in due il Paese. Quarant’anni dopo, le donne incontrano ancora molti
ostacoli e il loro diritto a scegliere è tutt’altro che garantito.
Il nodo è quello dell’obiezione di coscienza di medici e
infermieri. Secondo l’ultimo rapporto del ministero della Salute, con dati del
2016, i ginecologi obiettori nelle strutture in cui si praticano interruzioni
di gravidanza sono oltre il 70%, in lieve aumento sul 2015 (+0,4%). Le punte
più alte toccano alle regioni del sud, spesso oltre l’80%, con il record del
Molise, dove gli obiettori sono al 96,9%. Nell’Italia centrale si va oltre il
70%, a eccezione della Toscana, così come in Lombardia e Veneto, e oltre l’84%
nella Provincia di Bolzano. Se a questo si aggiunge che solo in sei strutture
con un reparto di ginecologia e ostetricia su dieci si praticano interruzioni
volontarie di gravidanza (84.926 nel 2016, in calo del 3,1% rispetto al 2015),
in molte regioni il diritto garantito dalla 194 è di fatto negato. Ci sono
strutture dove l’obiezione è totale e altre ridotte a catena di montaggio
dell’aborto, con singoli operatori che arrivano a praticarne 400 all’anno.Nel 2016 il Consiglio d’Europa, su ricorso della Cgil, ha richiamato l’Italia sia per le difficoltà di applicazione della legge sia per la «discriminazione» nei confronti del personale sanitario non obiettore. L’anno dopo ha fatto lo stesso il comitato dei diritti umani dell’Onu, sottolineando come questi ostacoli portino a un aumento degli aborti clandestini. Con i suoi rischi e le sue tragedie. È la stessa legge 194, del resto, a imporre che «l’espletamento delle procedure» e «l’effettuazione degli interventi richiesti» debbano essere garantiti, ma nella realtà le cose vanno molto diversamente.
Ci sono donne costrette a “emigrare” perché nella provincia
di residenza i tempi di attesa sono troppo lunghi, altre non vengono informate
adeguatamente sui loro diritti, altre ancora vengono invitate a rivolgersi ai
centri privati. Il tempo si accumula e in molti casi diventa impossibile
evitare l’intervento utilizzando la pillola abortiva Ru-486.
E in futuro? «I non obiettori hanno in media 50-60 anni»,
racconta un medico che abbiamo incontrato a Palermo, mentre gli specializzandi
di ginecologia hanno pochissime occasioni di fare pratica. Così «nel giro di
dieci anni, la legge 194 potrebbe diventare inapplicabile».
«Il problema è che in Lombardia non esiste un numero verde o
una pagina web istituzionale che dia informazioni chiare su quale ospedale
scegliere, che documenti portare, a che ora presentarti», commenta Eleonora
Cirant, ricercatrice indipendente che lavora per i Consultori privati laici di
Milano. «Un tempo il punto di riferimento erano i consultori, ma oggi con la
diffusione dei centri religiosi è tutto diverso». I consultori confessionali
lievitano in tutta la regione, con un aumento del 16% dal 2012 al 2017. Con
impatto anche sulle tasche dei cittadini, visto che Regione Lombardia rimborsa
comunque le visite, ma con somme più alte per incontri psicologici, educativi o
di gruppo (normalmente svolti nei centri religiosi) e più bassi per le visite
ostetriche o ginecologiche (cuore dei consultori pubblici). Risultato, in posti
dove la 194 è come se non esistesse, gli assegni del Pirellone arrivano con più
zeri. A Milano ci sono 18 consultori legati alle Ast e 15 accreditati. Di
questi ultimi, tre sono laici mentre 12 fanno capo a istituzioni religiose. In
sintesi, in uno su tre contraccezione e aborto sono tabù.
Ostacoli e complicazioni aumentano per le donne straniere,
che spesso incappano nei consultori religiosi del tutto inconsapevolmente. «Gli
ospedali spesso chiudono loro la porta in faccia, così si procurano l’aborto
con farmaci che possono ridurle in fin di vita», racconta Tiziana Bianchini
della Cooperativa lotta contro l’emarginazione. Molte nigeriane vittime di
tratta e costrette a prostituirsi in strada «raccontano di essere state
rimandate a casa». Ma accade anche a richiedenti asilo regolarmente
soggiornanti in Italia. A loro non resta che provare i consultori, ma nello slalom
tra religiosi e obiettori «i giorni passano e si può arrivare al superamento
del termine di tre mesi». Un meccanismo che incrementa gli aborti clandestini.
«Non dobbiamo pensare che chi non riesce a interrompere una gravidanza negli
ospedali pubblici terrà il bambino. Semplicemente, abortirà in modo illegale,
pagando molti soldi o mettendo a rischio la sua vita», chiarisce Bianchini. Per
esempio con il Cytotec, un farmaco per prevenire le ulcere gastriche. Compressa
dopo compressa, «essendo un anticoagulante provoca emorragie violentissime,
tanto che molte donne che lo hanno assunto a scopo abortivo sono finite in
ospedale, diverse in pericolo di vita. L’aborto è un diritto – chiude Bianchini
– nessuna donna dovrebbe rischiare la vita per farlo».
Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, rispondendo a
un’interrogazione del 2017, ha affermato che, secondo le stime, ogni anno dalle
12 alle 15 mila donne italiane e dalle 3 alle 5 mila straniere abortiscono
clandestinamente, in cliniche o studi medici fuorilegge.
Anche i farmacisti obiettano, peccato che per loro la 194
non preveda questa opzione. L’articolo 9 la limita al «personale sanitario ed
esercente le attività ausiliarie».
L’obiezione negli ospedali non è solo di coscienza, ma anche
economica, spiega Andrea Filippi, segretario nazionale della Fp Cgil Medici. Se
in un reparto c’è un solo non obiettore, «passerà il suo tempo a fare aborti e
non potrà occuparsi di altro o fare carriera». «E verrà isolato», aggiunge Lisa
Canitano, ginecologa e presidente dell’associazione Vita di Donna. Nella
maggior parte degli ospedali di Roma, il primariato di ginecologia è affidato a
medici provenienti da strutture del Vaticano o dell’Opus Dei.
Nel frattempo, il laico Policlinico Umberto I ha visto
ridursi pesantemente l’attività dello storico «repartino» Ivg, che negli anni
Settanta fu occupato per alcuni mesi da un collettivo femminista. Chiuso per un
periodo quando l’ultimo medico non obiettore è andato in pensione, ha poi
riaperto, ma con attività ridotta: 235 le interruzioni nel 2017, 42 le Ru. «È
un policlinico universitario, l’unico a Roma con repartino Ivg: gli altri due
non ce l’hanno neppure», dice Serena Fredda di Non una di meno. «Questo è un
problema per le prossime generazioni di medici».
Secondo il ministero della Salute, su 15 strutture
ospedaliere, in Calabria, solo sette praticano l’interruzione di gravidanza, e
all’ospedale di Lamezia su 12 medici solo due non sono obiettori. «È un lavoro
con un rischio chirurgico e anestesiologico», chiosa la Ermio. «Se si può
evitare, perché farlo?». (gz)
L’obiezione, fra l’altro, non sempre ha a che vedere con
motivi etici. «Il vero problema sono i soldi. Per molti non è conveniente
assumersi il rischio di un’operazione in più se si viene pagati comunque allo
stesso modo – riassume Ardizzone – Gli obiettori dovrebbero prestare un
servizio alternativo per la collettività, nei consultori o a fare prevenzione
nelle scuole».
Nell’efficiente Veneto, ci sono picchi di obiezione al 100%,
come ad Adria e nell’Est veronese. «L’obiezione aveva senso quando è stata
fatta la legge – denuncia Mario Puiatti, presidente nazionale dell’Aied
(Associazione italiana per l’educazione demografica) e responsabile delle
strutture di Udine e Pordenone – Oggi, invece, chi non è d’accordo
semplicemente non deve fare la specializzazione in ginecologia». Lui è un
pioniere, che prima dell’approvazione della 194 praticava già l’intervento
«inviando una lettera di avviso alla Procura della repubblica. Non si poteva
fare, eppure nessuno è mai venuto a controllare». Nel Nordest, continua, «il
punto di debolezza è il tempo: gli ospedali, per esempio, vogliono le ecografie
anche se non sono obbligatorie. La condizione psicologica delle donne viene
completamente sottovalutata».
I diritti, conclude, «non piovono dal cielo, bisogna
conquistarseli, se serve anche con la disobbedienza civile e poi lottare per
mantenerli».
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